Prosegue la carrellata di film ed incontri tematici della 26ma edizione del Torino Film Festival. Quest’oggi vi faremo il punto sulle novità che stanno caratterizzando la seconda edizione diretta da Moretti, come la sezione denominata “italiana doc”. Dodici i titoli di medio e lungometraggio per il concorso dedicato al documentario italiano, che, a detta dell’organizzazione è una delle sezioni centrali del Festival, anche se, a parer nostro, si fa sentire la pesante assenza di pellicole partenopee ammesse in concorso.
Si parte con Casa Verdi, per la regia di Anna Franceschini. A Milano esiste un monumento storico speciale e unico al mondo: si chiama Casa Verdi ed è la casa di riposo per musicisti voluta e fondata da Giuseppe Verdi nel 1899 «nella quale raccogliere e mantenere persone dell’uno o dell’altro sesso addette all’Arte Musicale, che siano cittadini italiani e si trovino in stato di povertà». Nei suoi saloni affrescati vivono oggi quasi sessanta persone: musicisti, cantanti lirici, ballerine classiche e direttori d’orchestra, che possono qui dedicarsi alla loro passione senza l’affanno del quotidiano.
Giornaliero di città e passanti, di Mauro Santini. Marsiglia, boulevard d’Athènes, 26 aprile 2006. Lisbona, São Mamede, 19 ottobre 2007. Madrid, calle de Atocha, 13 maggio 2008. Tre sguardi dalle finestre di altrettante camere d’albergo, tre giornate di passanti sconosciuti: la strada e i bar, gli incontri e la solitudine, gli amori e gli appuntamenti mancati.
Uso improprio, di Luca Gasparini e Alberto Masi. Luca, alla soglia dei cinquant’anni, decide di riavvicinarsi al rugby, vecchia passione di gioventù, allenandosi con la squadra degli All Reds. È una delle tante attività sportive di Acrobax, centro sociale creato negli spazi occupati dell’ex Cinodromo di Roma. L’esperienza lo porta a vivere due tragedie: la morte di due ragazzi di Acrobax. Antonio, stroncato in un incidente sul lavoro, e Renato, secondo il tribunale ucciso durante un diverbio per futili motivi, secondo parenti e testimoni in seguito a una premeditata aggressione politica.
Le giornate del 23 e 24 novembre sono altresì state caratterizzate dalla presenza di numerosi attori e registi, tra cui Pablo Larrain, autore del film Tony Manero; Santiago del Cile, 1978. Negli anni della dittatura di Pinochet, il cinquantenne Raúl Peralta è ossessionato dall’idea di impersonare Tony Manero, il personaggio di John Travolta nella Febbre del sabato sera, ed è il leader di un gruppo di ballerini che si esibisce regolarmente in un bar alla periferia della città.
Il suo sogno di sfondare nel mondo dello spettacolo, sembra poter diventare realtà quando la televisione nazionale annuncia un concorso per sosia di Tony Manero, ma il suo bisogno di assomigliare al suo idolo lo porterà a commettere una serie di furti e delitti. Intanto i suoi compagni di ballo, coinvolti nella resistenza contro il regime, vengono perseguitati dai servizi segreti.
Ed ancora: Bruno Olivero, regista di Napoli piazza municipio, nel quale si narra di un lungo viaggio nelle poche centinaia di metri quadrati della piazza in questione, che ci porta in diverse epoche storiche e in diversi contesti sociali attraverso diverse lingue. La piazza ha al suo interno molti luoghi che evocano la storia della città ma anche persone che passano e che raccontano la storia del nostro tempo, in cui il passato, a volte è fin troppo presente, a volte è dimenticato.
Per concludere, l’intervista di Moretti a Giuseppe Bertolucci, autore del film Berlinguer ti voglio bene, e fratello del grande regista Bernardo, che vi riportiamo in edizione integrale:
L’iniziazione al cinema
Nanni Moretti: Quali sono state le tue esperienze cinematografiche precedenti a questo film?
Giuseppe Bertolucci: Ho avuto un’iniziazione al cinema molto importante nel 1969,anno fatidico sotto molti punti di vista. In quel periodo frequentavo l’università a Firenze
ed ero appena stato lasciato dalla mia ragazza, per cui ero entrato in una sorta di buco nero
depressivo. Mio fratello Bernardo stava per iniziare le riprese di Strategia del ragno e, come si usava nell’Ottocento con i giovanotti delle famiglie benestanti, mi propose di fare
un viaggio e aiutarlo nel film. A quei tempi io non ero un cinéphile come mio fratello e molti della mia generazione; andavo al cinema in modo un po’ goliardico per vedere soprattutto gli spaghetti western, i film mitologici o le terze visioni, ora scomparse.
Il biennio ’68-’69
N.M.: In quel periodo di gruppi extraparlamentari, tu eri militante?
G.B.: No. Sono entrato nel PCI nel ’68, ma non ho mai avuto esperienze all’interno di gruppi extraparlamentari prima di entrare nel partito. L’evento per me decisivo in questo senso sono stati i fatti di Praga nell’agosto del 1968 e il conseguente discorso di Berlinguer. Un anno dopo, nel giugno del 1969, mio fratello mi ha proposto di seguirlo nell’avventura del film per togliermi dal mio bozzolo depressivo e così mi sono avvicinato a questa giungla del cinema pensando che fosse un’esperienza che si sarebbe conclusa di lì a poco. Attilio Bertolucci
N.M.: Vostro padre Attilio è stato un grande poeta; ma com’era in veste di spettatore cinematografico?
G.B.: Nostro padre, che era del 1911, era stato un appassionato cinéphile fin dai tempi in cui i cineforum si chiamavano cineguf, prima e durante la guerra. Il suo amore per il cinema, come per tanti della sua generazione, era molto legato al muto. Anche se era letterato,nostro padre non ha mai considerato il cinema un’arte minore, anzi ha sempre scritto di cinema. Penso a questo proposito agli articoli che scriveva per la Gazzetta di Parma. Per noi devo dire che è stato un vero e proprio padre creativo; l’oggetto della sua poesia è stato per anni la sua famiglia; l’essere la materia, il contenuto del canto di un poeta devo dire che era, da una parte una gratificazione, ma dall’altra anche inquietante. Non è facile vedersi rappresentati da questa terza persona; forse è un azzardo, ma mi sento di dire che valga anche per mio fratello, la volontà di ricostituirci una prima persona proprio attraverso il cinema.
L’incontro con Roberto Benigni
N.M.: Come è avvenuto l’incontro con Roberto Benigni? Io per esempio ricordo di averlo visto la prima volta all’Alberichino, la sala del teatro Alberico a Roma dove si trovava l’avanguardia romana. Erano altri tempi per il teatro di sperimentazione… Ricordo di aver visto lì, il monologo di Benigni Cioni Mario di Gaspare fu Giulia.
G.B.: Un anno prima era arrivato a Roma Donato Sanniti, toscano, portandosi dietro due compari, Roberto Benigni e Carlo Monni. Roberto un anno prima aveva fatto con Donato La corte delle stalle. Io a quell’epoca vivevo con Lucia Poli che era fiorentina, quindi la nostra casa era il punto di riferimento per i fiorentini che arrivavano a Roma. Mi ricordo che Roberto, che allora non aveva un soldo, raccontava spesso episodi della sua terra con quel suo modo mai macchiettistico o scontato. Quando aprirono il teatro Alberico, Roberto ed io ci offrimmo per fare l’apertura dell’Alberichino. Andammo sull’Appennino nella nostra casa di famiglia per tre giorni, in cui entrammo in questo trip creativo in cui io iniziai a scrivere, cercando di seguire quel flusso di lava vulcanica che usciva da quel piccolo essere che era Roberto. Alla fine arrivammo ad una sorta di brogliaccio e Roberto improvvisò qualche movimento, ma ebbi subito la sensazione che non funzionasse, quindi dissi a Roberto di immobilizzarsi. La mummificazione del corpo si rivelò poi importante per lo spettacolo, perché Roberto in questa sua sorta di implosione scatenava energia e questo funzionava bene all’Alberichino, che era una sala piccolissima dove lui stava ad un metro dal pubblico. Infatti lo spettacolo ebbe grande successo e le repliche non si contavano più. La cosa curiosa era che l’Alberico nasceva dall’esperienza dell’avanguardia teatrale, quindi la cosa che fece paradossalmente scandalo era che in questo tempio dell’avanguardia lo spettacolo d’apertura fosse di parola, mentre di solito si privilegiava una ricerca sul teatro gestuale. Inoltre era uno spettacolo furiosamente comico che esaltava il talento individuale dell’attore, tutti elementi molto in contrasto col tipo di sperimentazione che si faceva a quell’epoca.
N.M.: Sì, ricordo di aver visto Tropico di Matera di Petrocelli. Negli anni ho un po’ ripensato a quel teatro di ricerca che come spettatore vedevo un po’ con distacco, e in effetti ora mi rendo conto che cercavano davvero di offrire un’alternativa al teatro convenzionale.
G.B.: Se penso al teatro romagnolo contemporaneo mi sembra ci siano molti riflessi di quell’esperienza.
L’uso della macchina da presa
N.M.: Nel film ci sono molti carrelli, per esempio nella scena dello scherzo a Mario nella balera. Era un modo di usare la macchina da presa a cui eri affezionato o era un modo per andare incontro a questo tipo di attore?
G.B.: Per i registi della mia generazione c’era la grande preoccupazione dell’uso della m.d.p., forse per la preminenza della volontà di dimostrare di essere regista. Sinceramente io non so cosa c’era dietro all’uso di quel carrello, so che è nato così. Era un camera car su una strada asfaltatissima e Roberto camminava tra le zolle di in un campo appena arato. Roberto ricorda sempre che questa scena è stata completamente improvvisata; c’è questo movimento implacabile della m.d.p. e questo corpo in cammino ondeggiante, che contrastava moltissimo con la linearità della strada.
N.M.: Girando con Benigni, pensavi, vedendolo recitare, che sarebbe poi diventato regista? Era curiosa rispetto al tuo lavoro?
G.B.: Roberto si affidava completamente a me durante le riprese, anche se sento il film totalmente di coppia, fatto a quattro mani. Era curioso, c’erano già in lui due delle sue caratteristiche fondamentali e cioè una forte tenuta etica che si manifestava in un rispetto sacrale del proprio talento e poi il desiderio di allargare la sua platea a milioni di persone.
Il personaggio di Alida Valli
N.M.: Una curiosità rispetto al film: Alida Valli, che nel panorama del cinema italiano aveva un certo nome, ha accettato subito di lavorare al tuo film?
G.B.: Alida per me era la madre di tutte le attrici, forse anche perché era la protagonista del film di Bernardo Strategia del ragno, sul cui set l’avevo conosciuta. All’inizio però, e non saprei proprio dire il motivo, mi ero fissato che la madre nel mio film dovesse essere Valentina Cortese e in effetti la prima proposta venne fatta a lei. Prima ancora i produttori del film, che erano gli Avati ed avevano un contratto con la Eurofilm, grande casa di distribuzione allora già in declino, avevano avuto l’idea di far leggere il copione alla contessa Cicogna, allora collaboratrice dell’Eurofilm. Così io e Roberto andammo a casa di questa nobildonna e le leggemmo la sceneggiatura. La contessa non sapeva più dietro cosa nascondersi (il suo cagnolino, il portacipria…), tanto era l’imbarazzo per quello che stavamo leggendo.
Del resto anche Valentina Cortese quasi mi scaraventò il copione in faccia! Allora mi sono ricordato di aver conosciuto Alida Valli e l’ho contattata; le ho portato il copione il giorno successivo lei mi ha chiamato per dirmi che accettava.
Novecento
N.M.: Sulla lavorazione di Novecento sono stati realizzati due documentari, uno tuo e uno di Gianni Amelio. Che differenze ci sono?
G.B.: Gianni ed io abbiamo girato con la stessa troupe che era arrivata per il suo lavoro. In questo film io ero stato a lungo implicato perchè la scrittura della sceneggiatura era durata circa tre anni, quindi ho pensato di avere un rapporto con il film attraverso una comparsa contadina e comunista che ho seguito durante le riprese.
Il comunismo in Berlinguer ti voglio bene
N.M.: Nel film c’è il ritratto della base comunista e dei suoi luoghi comuni. Tu e Benigni avevate le stesse idee?
G.B.: Nel film Roberto trasfigurava la realtà, ma allo stesso tempo riportava qualcosa di vissuto e assolutamente presente. Ci sono alcuni momenti nel film che sono i luoghi comuni della base del comunismo, come la frase che il comunismo avverrà «come viene un ragazzino la prima volta», con la stessa sorta di ineluttabilità.
N.M.: Quando hai sentito il cambiamento della sinistra italiana? C’è stato un momento particolare che ricordi?
G.B.: No, penso sia avvenuta la stessa cosa che è successa quando il cinema non è più stato cinema. A questo proposito, ho molto amato il documentario Fare politica di un giornalista belga. Direi che è stata una sorta di dissolvenza incrociata.
N.M.: Com’eri durante le riprese?
G.B: Felice, pieno di energia come non sono stato mai più. Mi piaceva molto ed è un piacere che ora mi è difficile riprovare.
Oggetti smarriti
N.M.: Presidente da undici anni di quella meravigliosa istituzione che è la Cineteca di Bologna, avevi detto che ti saresti preso un anno sabbatico dall’attività di regista e invece non sei più tornato dietro alla m.d.p. Il tuo secondo film, Oggetti smarriti, è il primo film di Laura Morante ed è più costruito e costoso rispetto al primo. C’è anche un attore come Bruno Ganz. Che impressione ti ha fatto fare questo film e come hai scoperto Laura?
G.B.: L’ho vista la prima volta seduta per terra all’Alberico, questa bellezza assolutamente originale. Lei non voleva fare l’attrice, anche durante le riprese diceva che non era un’attrice, metteva questo vetro tra se stessa e questa pratica che le riusciva così naturale.
La riproducibilità
N.M.: prima parlavi di una felicità che ti è difficile riprovare, è una cosa triste. Perché dici questo?
G.B.: In questi anni sto vivendo un rapporto difficile con il concetto di riproducibilità perché penso che ci sia molto sfuggita di mano. Ci sono delle derive, un malsano ricatto per cui se una cosa non viene riprodotta, non esiste, non ha legittimità. Lo trovo orribile.
Il rapporto con gli attori
N.M.: Il rapporto personale che avevi instaurato con Benigni si è poi riproposto con le attrici con cui hai lavorato a monologhi teatrali, come per esempio Marina Confalone e Sabina Guzzanti?
G.B.: Sì, in teatro ho sempre lavorato a monologhi senza mai capire se è il massimo del teatro, o non è neppure teatro. Mi piace molto lavorare con gli attori e il monologo permette di creare un rapporto univoco, come quello che avevo anche con Roberto.
Il progetto sul Po
N.M.: So che stai lavorando ad un progetto sul Po.
G.B.: Sì, è un lavoro per la televisione ma non so cosa ne verrà fuori perché trovo la televisione di oggi molto brutta e quindi sarei un presuntuoso a pensare di poter fare qualcosa di bello. Il progetto è valido, è una coregia con Berseli. L’argomento è molto appassionante perché è stato uno dei grandi topoi della nostra storia, prima per Mario Soldati, con Viaggio sul Po, e poi per tanti altri film, Ossessione per esempio. La valle del Po è il luogo dove è passata e si è formata tutta la politica italiana, dagli anarchici ai fascisti.
L’Italia del film
N.M.: Nel film c’è anche grande attenzione a paesaggio. Che tipo di Italia volevi raccontare?
G.B.: Di quei luoghi mi affascinava questo avere un piede nel consumismo e l’altro nell’era moderna, nel medioevo e nell’era moderna. Da una parte c’è la metafora della vita come genitale e dall’altra l’utopia del comunismo. Ci sono queste nuove cattedrali che sono i centri commerciali, l’Emilia ne è piena e ormai è una grande megalopoli.
N.M.: Il ’77 è stato un anno cruciale per l’Italia. Nel film ce n’è solo una eco.
G.B.: Nel ’77 il PCI era la bestia nera del movimento. In effetti per questo il titolo è paradossale. La verità è che doveva esserci un altro titolo che fa riferimento alla battuta finale di Roberto, quando sbattono tutte le porte «Cazzo che vento!», appunto. Ma la produzione non ha voluto e quindi abbiamo optato per Berlinguer ti voglio bene.
Dopo il film
N.M.: Dopo l’esperienza alla regia hai continuato a lavorare come sceneggiatore. Era cambiato qualcosa?
G.B.: In effetti ho lavorato ancora poco come sceneggiatore, ho fatto qualcosa per Bernardo e con Roberto. Però erano cose molto legate a loro, tanto che ad un certo punto mi son detto che era finita la spinta creativa con Roberto e l’ho gettato tra le braccia di Vincenzo Cerami!
N.M.: Che tipo di spettatore eri? Hai poi cambiato idea su alcuni film?
G.B.: A 21 anni ero svogliato e goliardico, poi lavorando con Bernardo mi sono responsabilizzato perché lui era davvero un cinéphile. Allora ho molto amato il cinema classico, soprattutto Ford e Hitchcock che sono sempre stati i miei parametri di riferimento.
N.M.: Dopo Oggetti smarriti hai raccontato anche terrorismo, così come ha fatto Gianni Amelio, che forse era il più cinéphile tra noi, con Colpire al cuore.
G.B.: In quel periodo eravamo invasi mediaticamente dal terrorismo, tutti i giorni gli attentati conquistavano le prime pagine. Fare un film sul terrorismo sarebbe stato come giocare una finta partita di calcio. Era difficile ricondurre una cosa così reale come il terrorismo alla finzione.
L’Italia oggi
G.B.: Oggi l’opinione pubblica è completamente scomparsa. L’attuale ceto politico è davvero mediocre e forse è espressione della nostra mediocrità. La classe politica guarda allo spazio che si ottiene sui media e questo è molto triste. Recentemente alcuni episodi riguardanti esponenti di questa classe mi hanno molto colpito, in negativo. Il cinema italiano, invece, mi pare che faccia miracolosamente alcuni buoni film anche senza un solido apparato industriale che lo sostenga, e ciò fa ben sperare.