Siamo giunti alla seconda giornata piena del festival piemontese, ed il movimento non manca già dalle prime ore. Strutturato in ben 11 sale cinematografiche, è un susseguirsi di proiezioni, conferenze stampa ed incontri scanditi nelle 12 ore di programmazione, che vanno da Cédric Venail, regista di Un virus dans la ville, a Gabriele Vacis, regista di Uno scampolo di Paradiso, Tonino De Bernardi, regista di Pane/Piazza delle Camelie, Joe Lawlor (regista) e Annie Townsend (attrice) di Helen.
Ed ancora: György Szomajs, regista di The Sun Street Boys, Sydne Rome (attrice) e Marcello Gatti (direttore della fotografia) di What?, Fien Troch, regista di Non-dit, Kohei Oguri regista di Umoregi (The Buried Forest), Incontro con Daniele Gaglianone, regista di Non ci sarà la Guerra.
Si comincia alle 9.30 con un fuori concorso del regista Martin Hans Schmitt; Un viaggio attraverso i mondi delle autostrade: gli enormi cantieri stradali africani, le moderne fabbriche automobilistiche delle multinazionali, i ponti autostradali di Abuja, capitale della Nigeria, il Bang Na Express di Bangkok e le grandi autostrade a otto corsie della California. Le immagini tratte dai filmati industriali e didattici, così come la musica di Al Gromer Khan, creano i presupposti per una vera e propria immersione nell’universo autostradale.
Per la retrospettiva dedicata al movimento cinematografico inglese degli anni 80-90, che assume il nome di “British Renaissance”, va in scena l’unica commedia per il cinema del regista televisivo Alan Clarke: Rita Sue e Bob in più, seguita da Ricordo, di Colin Gregg, My Beautiful Laundrette, di Stephen Frears, Bisogni primari, di Nick Park, Il giorno delle oche, di Richard Eyre, London Story, di Sally Potter e La scelta, di Marek Kanievska.
Nella sessione “Lo stato delle cose”, destinato quest’anno alla politica, ma da Moretti ce lo dovevamo aspettare, troviamo: Il fuoco, il sangue e le stelle, di Caroline Deruas, Armando e la politica, di Chiara Malta, I ragazzi della via del sole, di György Szomjas, Made in America, di Stacy Peralta, Maggio 68 la bella opera, di Jean-Luc Magneron e Loic Magneron.
Anche quest’anno non manca “la zona”, che conferma e rafforza la sua caratteristica di essere la sezione in cui l’istinto di ricerca del festival, si concentra nei territori del cinema meno allineato alle traiettorie convenzionali. Una selezione di 34 opere di vario formato e metraggio, cui si aggiungono l’omaggio a Stephen Dwoskin (3 titoli), quello a Ken Jacobs (3 titoli) e la retrospettiva dedicata al regista giapponese Koji Oguri (5 titoli).
L’evento più importante della giornata, è stato l’incontro delle 15, tra Roman Polanski, cui il festival dedica una retrospettiva, ed il pubblico, intervistato per l’occasione dal direttore Nanni Moretti. Pubblichiamo di seguito l’edizione integrale:
Moretti:
Imposterei l’incontro secondo le cinque fasi di lavorazione di un film: la genesi (la nascita dell’idea e dell’elaborazione della sceneggiatura), la preparazione (la scelta dei vari collaboratori e del cast), le riprese, la postproduzione e l’uscita nelle sale (a questo proposito vorrei interrogare Polanski anche nelle vesti di spettatore). Ma prima di tutto vorrei chiedere al nostro ospite di rievocare gli anni precedenti al suo debutto nella regia di lungometraggi. Gli anni in cui ha frequentato la scuola di cinema di Łódź. E mi piacerebbe sapere in che misura questa esperienza è stata importante sia come spettatore sia come futuro regista. Infatti, come studente di cinema, Polanski ha potuto vedere molti film di cui in quel periodo il regime comunista polacco vietava l’uscita nelle sale.
Polanski:
Sicuramente quel periodo è stato i più penoso per i polacchi. Non esisteva la possibilità di accedere a film di produzione internazionale, tranne poche eccezioni di film neorealisti italiani e alcuni film francesi. Nel periodo che seguì la morte di Stalin, in particolar modo dopo il XX° Congresso PCUS del 1956, vi fu una lenta apertura e si cominciò a respirare profumo di libertà.
Lenin aveva affermato e fatto incidere su marmo che «l’arte più importante è il cinema», quindi già all’epoca esisteva una forma di rispetto enorme verso quest’arte. Ci era concesso, all’interno della scuola, di vedere moltissime pellicole, che gli altri non potevano vedere, grazie a un’organizzazione particolare che selezionava e acquistava i film stranieri in base alla loro correttezza politica. Durante gli studi io e i miei compagni avevamo l’impressione di perdere tempo, solo nel corso degli anni mi sono reso conto dell’importanza della scuola di cinema; non solo per una questione di studi teorici ma proprio per la possibilità di poter vedere sia i nostri lavori realizzati sia i film di archivio della cineteca polacca.
Moretti:
In quel periodo qualcuno di voi sperava di poter realizzare un soggetto sulla burocrazia di regime?
Polanski:
Il primo film che affronta quest’argomento è La fortuna strabica di Andrzej Munk presentato a Cannes nel 1960. Da quel momento abbiamo cominciato a criticare e denunciare questa inumana burocrazia comunista.
Moretti:
Torniamo alla prima fase: la genesi del film. Nella tua carriera ti è mai capitato di aver scritto e preparato un film che poi a malincuore non sei riuscito a realizzare e, ancora, di aver dovuto abbandonare un progetto e di esserne sollevato?
Polanski:
Eravamo circa nel 1970 e avevamo preparato la realizzazione di Il maestro eMargherita, la sceneggiatura era bellissima, avevamo già scelto gli attori e fatto i sopralluoghi. Già in accordi con la Warner, il progetto è saltato all’ultimo momento a causa di un budget troppo limitato.
Al contrario avrei dovuto girare un film con John Travolta pieno di effetti digitali, ma forse
è stato un bene il suo rifiuto all’ultimo minuto.
Moretti:
Parliamo del tuo primo film Il coltello nell’acqua. È un film estremamente complicato sia per la storia che per l’organizzazione, la regia e la fotografia.
Polanski:
Ero giovane e tutto mi sembrava possibile. Dovevo avere anche una parte nel film ma i produttori me l’hanno sconsigliato. In quel periodo c’erano dei gruppi di produzione e ognuno era presenziato da un direttore artistico che realizzava dai due ai cinque film all’anno. Quando ho finito gli studi ho passato un periodo a lavorare per uno di questi gruppi. Il primo film di cui mi sono occupato è stato proprio La fortuna strabica, subito dopo ho proposto il mio primo film, l’ho presentato e iniziato poco dopo da solo; in un secondo momento Skolimowsky, che non era ancora regista ma scriveva già molto bene, mi ha aiutato, e sue sono state molte idee ottime per quel film, come l’aver ridotto l’azione da tre a due giorni.
Moretti:
Dopo la candidatura all’Oscar per il film Il coltello nell’acqua nello stesso anno in cui vinse Fellini con 8½, ti proposero di rifare il film con un cast più importante . Hai mai pensato di accettare quell’offerta?
Polanski:
Assolutamente no, trovo ridicolo il pensiero di rifare un film. Il giorno dopo l’assegnazione degli Oscar mi hanno chiamato due agenti della 20th Century Fox, mi hanno chiesto di incontrarli per parlare di un progetto, quindi li ho raggiunti. L’affare che volevano propormi era di rifare il film con un cast di attori molto grosso, mi è sembrato così stupido.
Moretti:
Il tuo cinema è pieno di riferimenti storici e politici ma mai ideologici. Con il film La morte e la fanciulla ad esempio non si nomina mai il paese in cui si svolge anche se si sa che è sudamericano. Non hai mai avuto l’idea di affrontare un film sfacciatamente politico?
Polanski:
Sarebbe stato necessario girare il film nel paese della vicenda, ma Sigourney Weaver in versione sudamericana era già oltre al limite, quindi ho ambientato il film in un paese non definito.
Moretti:
Non hai mai scartato un soggetto politico?
Polanski:
Quando studiavo cinema nel periodo del disgelo dopo il ’56, si cominciava a respirare aria di libertà ed euforia. In quel periodo ho assistito al cambiamento drastico di molte persone che da comuniste sono passate dall’altra parte in poche settimane. Un giorno c’era un’assemblea in un palazzetto, al centro c’era un ring e io mi sono trovato non so come sopra a questo palco a parlare. Poi mi hanno inserito in una delegazione polacca che aveva il compito di andare a parlare alla sede del Partito Comunista. In quell’occasione ho capito quanto sarebbe stato facile per me buttarmi nella politica, ma ho anche capito la sua futilità e mi sono reso conto di dover riflettere sulle mie convinzioni profonde.
Moretti:
Parliamo del tuo rapporto con Gérard Brach. Come collaboravate insieme?
Polanski:
Con Gérard la caratteristica principale della nostra collaborazione era quella di non usare un metodo. Non c’era ordine, si parlava di ciò che ci divertiva partendo da alcune scene che magari non sarebbero mai state girate. La sceneggiatura meno costruita è stata la prima: Cul-de-sac. Abbiamo sempre cercato di scrivere cose che potessero essere finanziabili, scene non care. Dopo Cul-de-sac abbiamo lavorato per Non mordermi sul collo. Prima di realizzare il primo film all’estero abbiamo passato cinque anni in Francia a scrivere e guardare film horror inglesi che ci facevano ridere così tanto. Da lì è nata l’idea di fare un film comico di genere horror.
Moretti:
Brach ha lavorato anche con molti altri registi tra cui Marco Ferreri. Cosa pensi di Ferreri, uomo capace di scrivere un film su un personaggio che si innamora di un accendino?
Polanski:
Gérard ha lavorato con tantissimi registi, ma non so come lavorava con loro, c’è da dire che lui aveva una grande capacità di adattamento a seconda dei registi con cui lavorava. Con lui poi abbiamo imparato a gestire meglio il nostro tempo quando lavoravamo assieme.
Moretti:
Ti sei mai fatto condizionare dal costo delle realizzazioni?
Polanski:
Cerco di non pensare mai a questo aspetto, in un secondo momento magari ci rifletto e apporto dei cambiamenti.
Moretti:
Il pianista parte dalla lettura del romanzo. Hai capito subito che sarebbe stato un oggetto importante per te da portare avanti?
Polanski:
Si, immediatamente.
Moretti:
Ne La morte e la fanciulla usi un finale aperto. Non lo trovi ambiguo?
Polanski:
Non è ambiguo, preferisco i finali aperti perché mi piace concedere poche certezze allo spettatore. Mi piace anche lavorare con degli attori che abbiano i loro segreti nei confronti in cui il regista non si deve intromettere. Non ho mai chiesto a Ben Kingsley se fosse d’accordo con il finale da me scelto né mi interessava saperlo.
Moretti:
Riguardo a Macbeth, esistono varie versioni in pellicola. Li avevi visti?
Polanski:
Ho visto quello di Welles e quello di Kurosawa. Trovo che il primo sia mancato, non ne ho un giudizio positivo anche se lui è uno dei miei registi preferiti. Comunque sono sempre stato attratto dagli adattamenti di Shakespeare fatti da Laurence Olivier.
Moretti:
Disegni bene. Usi questa manualità per i tuoi film?
Polanski:
Non sono un grande scrittore e trovo più facile disegnare le scene che scriverle. Uso il disegno per parlare e comunicare con le parti artistiche. Ad esempio disegno i personaggi come li immagino e poi faccio i casting e scelgo la persona in base al disegno che ho fatto. Per quanto riguarda lo storyboard, l’ho sempre fatto per tutti i miei corti, poi mi sono reso conto che per i film era una limitazione dover decidere prima dove mettere la macchina da presa e quindi non l’ho più fatto. Uso lo storyboard solo per alcune scene che hanno bisogno di effetti speciali, scene in cui è necessaria una grande precisione di tempi e organizzazione.
Moretti:
Nella fase della scelta degli attori tendevi a non privilegiare i professionisti. Quando hai cambiato idea?
Polanski:
Quando ho avuto la possibilità di scegliere.
Moretti:
Riguardo a Il coltello nell’acqua, è un film doppiato. Perchè?
Polanski:
La protagonista non aveva mai recitato mentre il protagonista era appena uscito dalla scuola di recitazione e lo trovavo troppo impostato, così ho deciso di doppiare il film per intero. Non amo il doppiaggio e trovo che questo sia un grosso problema in Italia.
Moretti:
Come sei arrivato a prendere John Cassavetes per Rosemary’s baby?
Polanski
La produzione inizialmente voleva Robert Redford. Purtroppo però è sorto un problema legale tra lui e gli studi e non se ne è fatto più nulla.
Moretti:
Cosa pensi di Cassavetes regista?
Polanski:
Trovo che sia molto diverso da me, trovo il suo cinema malfatto.
Moretti:
Ti sei mai pentito della scelta di alcuni attori? E ti sei mai meravigliato di attori che pensavi non fossero azzeccati?
Polanski:
Mi è capitato di non essere soddisfatto di alcuni attori con cui ho lavorato ma non dirò mai chi sono. Spesso mi è anche accaduto di apprezzare attori che non mi davano molta fiducia.
Moretti:
Le scene di massa in Macbeth oggi verrebbero fatte in elettronica. Che rapporto hai con la tecnologia usata nel cinema?
Polanski:
Un rapporto fantastico. Trovo che sia utilissima, certo è che va usata per fare cose intelligenti, mentre spesso si usa per arricchire pellicole scarne di trama e poco interessanti. Sta all’intelligenza del regista fare di necessità virtù
Moretti:
Qual è stato in assoluto il tuo primo giorno di riprese che ricordi come drammatico?
Polanski:
Pirati, è stato un incubo, non c’era nulla di pronto, mancava sempre qualcosa, ad un certo punto me ne sono andato. Dovrebbero darmi un premio speciale per essere riuscito a finirlo.
Moretti:
Una volta hai detto: «Il bravo regista non cede nulla a chicchessia».
Polanski:
È la verità. In questo lavoro per quanto ci possa essere collaborazione c’è sempre un momento in cui gli altri, per un loro motivo, ti vengono contro.
Moretti:
La troupe è determinante per la realizzazione di un film. Hai trovato molte differenze negli anni e nei paesi in cui hai lavorato?
Polanski:
Nei paesi no, tranne chiaramente l’esperienza americana delle grandi produzioni. Lì chi lavora per i film è un impiegato, timbra il cartellino e a una certa ora se ne va. In America sono molto più freddi, è un lavoro come un altro, non si fanno coinvolgere nella produzione, sono comunque bravissimi. La prima e la seconda volta che ho girato in Italia invece ho trovato molto entusiasmo, anche se quando ho lavorato con Tornatore ho notato meno allegria. Veramente molto bravi anche i ragazzi della troupe tedesca con cui ho fatto Il pianista. Non mi spiego però questo cambiamento in Italia.
Moretti:
Come ti rapporti con l’apparato cinematografico, con la macchina cinema? Non provi a volte angoscia o paura nei suoi confronti? Specialmente nel caso di una grande produzione americana?
Polanski:
Assolutamente no. Anzi mi trovo sempre più a mio agio con il mondo del cinema. Mi ricordo che quando sono stato chiamato dalla Paramount a girare Rosemary’s Baby e sono entrato per la prima volta in uno studio hollywoodiano, ho provato un’emozione fortissima. E quando ho cominciato a girare, ho ritrovato l’eccitazione del mio primo giorno di riprese del mio primo cortometraggio. In realtà non ho avuto nessun problema a lavorare con un apparato cinematografico più complesso: è come quando un guidatore di talento passa alla Formula 1. Semplicemente può andare più veloce.
Moretti:
In Per favore non mordermi dal collo ho notato che il personaggio del professor Anbronsius ricorda in parte la recitazione del cinema comico muto. Si tratta di una scelta registica precisa o è un aspetto che è nato più spontaneamente durante le riprese?
Polanski:
L’uno e l’altro. In fase di sceneggiatura comunque pensavo a un tipo di recitazione simile a quella di Cul-de-sac . Quando lavoravo con Brach alla sceneggiatura, spesso io stesso mimavo le scene del film a Gérard per fargli capire esattamente come la volevo. A quel punto riscrivevamo la scena, che a volte rifacevamo anche venti, trenta volte.
Moretti:
Collaborando con uno sceneggiatore diverso da Brach, come cambiava ed è cambiato il tuo modo di lavorare?
Polanski:
Con Robert Towne (Chinatown) fu per esempio molto diverso. Robert aveva un grande talento per i dialoghi, ma aveva grande difficoltà nello strutturare una sceneggiatura. Mi ricordo che la prima stesura del film era lunghissima, 172 pagine e i produttori mi hanno fatto capire che doveva essere tagliata. La seconda stesura era ancora più lunga e così mi misi con Robert a riscrivere tutto. Impiegammo otto settimane che ricordo come un incubo: ci trovavamo a casa di Robert, a Los Angeles, faceva un caldo pazzesco e lui era di una lentezza esasperante.
Moretti:
Riguardando tutti i tuoi film, ho notato che spesso ricorri a campi lunghi o totali anche in scene in cui i personaggi compiono delle azioni importanti. Tu non stringi sull’attore. Come nell’ Inquilino del terzo piano quando tu entri nel negozio per comprare la parrucca, ad esempio. Anche nel Pianista ci sono pochissimi primi piani.
Polanski:
Per quanto riguarda il Pianista quello che volevo fare era mettere il regista in secondo piano. Cercare di rendere il meno evidente possibile la regia, non far sentire la macchina da presa. Non volevo realizzare un documentario, ma neanche un film hollywoodiano in cui si sente sempre la presenza forte del regista. Credo che in quel caso gli eventi narrati necessitassero infatti di verità senza indugi di alcun tipo.
Moretti:
Nella fase delle riprese, pensi già al montaggio o ti capita di cambiare completamente in moviola tutta una parte di girato?
Polanski:
Di solito già durante le riprese penso alla scena montata, ma ovviamente mi capita di
cambiare le cose. Per me la macchina da presa si identifica con il narratore. Se per esempio dovessi riprendere adesso questo incontro, il punto d vista sarebbe il mio, perché sono io che sto parlando. Non sarebbe quello del pubblico, ma il mio.
Moretti:
Come è cambiato il tuo atteggiamento nel confronto delle riprese? Provavi angosce, avevi dubbi o problemi che ora hai superato?
Polanski:
In realtà mi sento sempre più a mio agio sul set. E mi pare tutto sempre più facile. Troppo. Infatti oggi ho bisogno di una sfida per continuare a provare interesse a realizzare un film. Ecco perché ho deciso di fare Oliver Twist. In quel caso mi affascinava l’idea di ricostruire un mondo lontano, come quello della Londra vittoriana, nel modo più accurato e preciso possibile. Le ricerche sono state lunghe e complesse. Oggi l’idea di realizzare un film sulla quotidianità, sui piccoli problemi di alcuni personaggi non mi interessa più, mi verrebbe troppo facile. Ho bisogno di altre difficoltà con cui cimentarmi.
Moretti:
Quando prima ti ho chiesto di un film non realizzato a cui tenevi molto, mi aspettavo citassi Pompei, un progetto che hai dovuto abbandonare recentemente.
Polanski:
Mi è infatti dispiaciuto moltissimo rinunciarvi. Il film prevedeva un budget molto ingente. Le riprese dovevano iniziare il 30 giugno 2007 e concludersi in autunno. Il problema è stato prima lo sciopero degli autori e poi quello degli attori. Senza star, una produzione non può finanziare un film con quel budget e così abbiamo rinunciato.
Moretti:
Nella prima versione di Repulsion gli omicidi commessi dalla protagonista erano tre. Ti capita mai di fare dei cambiamenti quando hai già completato il montaggio?
Polanski:
Nel caso di Repulsion è stato un mio amico, a cui avevo mostrato il montato, a suggerirmi di tagliare delle parti e io ho deciso di seguire il consiglio.
Moretti:
Una volta, quando si montava in moviola, la segretaria di edizione segnava i ciak migliori che poi si portavano in sala di montaggio. Oggi, con il digitale, puoi invece importare tutto il girato. Tu come procedi?
Polanski:
Chiedo ancora alla segretaria di edizione quale secondo lei à il ciak migliore.
Moretti:
Qual è il tuo rapporto con la musica?
Polanski:
Nei miei primi film ho utilizzato molto jazz. All’epoca, in Polonia, era una musica di protesta, proibita dal regime. Mi ricordo che spesso ci si riuniva in vere e proprie jam session clandestine. Si faceva dell’ottimo jazz in Polonia. Ero amico di Komeda. Il suo jazz mi piaceva molto e così gli chiesi di scrivermi le musiche per Due uomini e un armadio: realizzò dell’ottimo cool jazz. Collaborai a lungo con lui, fino a Rosemary’s Baby e nel frattempo era diventato un vero e proprio compositore di musica per film. Morì improvvisamente in un incidente nel 1969 e io mi ritrovai di colpo solo. Prima non pensavo mai alla musica: sapevo che c’era Komeda e non me ne preoccupavo perché il suo lavoro era sempre perfetto.
Moretti:
Io spesso quando concludo il secondo montaggio organizzo una proiezione per amici e persone non di cinema di cui chiedo consigli e pareri, a volte anche facendomi influenzare. Credo sia importante, anche se non bisogna lasciarsi travolgere dalla cosa. Anche vedere un tuo film in sala con il pubblico spesso ti cambia completamente la prospettiva e l’idea che avevi della tua opera.
Polanski:
Sono d’accordo. Spesso diventa letteralmente un altro film. Quando comunque devo affrontare il rough cut, mi capita sempre di provare il desiderio di suicidarmi, insieme a una grande depressione: è un momento veramente duro.
Moretti:
Ti è mai capitato di assistere alla proiezione di un tuo film e di scoprire aspetti del tutto nuovi e diversi?
Polanski:
Assolutamente sì. Spesso scopro cose del tutto inaspettate o che non avevo immaginato. Specialmente riguardo alla comicità. A volte il pubblico ride senza che io ne capisca il motivo o invece non sembra divertirsi in momenti che per me sono comici.
Moretti:
Ti sei mai sentito incompreso dal pubblico?
Polanski:
A volte. Per esempio per me L’inquilino del terzo piano era un film comico, ma il pubblico l’ha inteso diversamente.
Moretti:
Il contrario è peggio. Un film drammatico in cui il pubblico ride…
Moretti:
Dopo Pulp Fiction sono usciti moltissimi film tarantiniani. Ti è mai capitato di vedere dei film alla Polanski?
Polanski:
Non so. Mi sa che queste sono cose da critici.
Moretti:
Cosa pensi di un regista come Kieslowski?
Polanski:
Credo di avere visto solo due o tre film suoi. La doppia vita di Veronica è quello che preferisco.
Moretti:
Conoscendo diverse lingue, tu segui anche le edizioni straniere di molti tuoi film. Non credi che così sia ancora più difficile lasciarsi alle spalle un lavoro, considerarlo un capitolo chiuso?
Polanski:
In effetti si tratta di un lavoro enorme e faticoso che arriva alla fine, quando ormai sei convinto che tutto sia concluso. Per L’inquilino del terzo piano mi fu chiesto da Izzo, il direttore del doppiaggio, di doppiarmi in italiano. Non ero per nulla entusiasta della cosa, ma accettai. Fu un lavoro durissimo e noioso che spero di non dover mai più ripetere.
Moretti:
Dopo aver distrutto Cassavetes, ti chiederei un giudizio anche come spettatore di due movimenti che sono nati negli stessi anni in cui tu stesso hai esordito: la Nouvelle Vague e il Free Cinema.
Polanski:
Non mi hanno mai interessato molto. I film della Nouvelle Vague sono spesso inguardabili. A parte forse Truffaut. Il Free Cinema è già un discorso diverso, i film sono più interessanti. Ma bisogna ricordare che prima di questi movimenti c’era stato il Neorealismo: quelli sono veri e propri capolavori.
Moretti:
Nella tua autobiografia, a un certo punto racconti di un tuo incontro con la tua ex moglie quando ormai il rapporto era irrimediabilmente compromesso e descrivi l’avvenimento dicendo che era come «un brutto film italiano». Avevi un titolo preciso in mente?
Polanski:
Non mi ricordo, è passato troppo tempo.
Moretti:
Rivedendo La nona porta devo ammettere di essermi spaventato a tal punto (ero a casa da solo, di sera…), da interrompere la visione al quarantanovesimo minuto. A te capita di commuoverti, provare paura o piangere al cinema?
Polanski:
Se vale la pena, certo. Recentemente per esempio ho amato molto Il petroliere di Paul Thomas Anderson. Comunque sono orgoglioso di sapere che un mio film possa suscitare un tale effetto su un altro regista.
Moretti:
Dei tre grandi momenti del cinema italiano (il Neorealismo, il cinema d’autore degli anni ’60 e la commedia all’italiana) quale preferisci?
Polanski:
Sono tutte e tre delle epoche straordinarie. Mi ricordo che da studente aspettavo con ansia il film successivo di De Sica o Rossellini mentre negli anni ’60 seguivo i giovani registi italiani (Pasolini, Olmi, Bellocchio, Bertolucci, De Seta) sia come collega sia come spettatore. Mi chiedo cosa sia successo al vostro cinema dopo. Sarà colpa della televisione.