Recensione: Il papà di Giovanna

Lunghi applausi del pubblico accolgono il secondo dei quattro film italiani in concorso alla Biennale di Venezia; Il papà di Giovanna, di Pupi Avati che torna in laguna tre anni dopo La seconda notte di nozze, puntando su un tema ricorrente in questa 65ma mostra: la tragedia famigliare.

Bologna 1938. Michele Casali (Silvio Orlando) si trova in una situazione disperata: la sua unica figlia, Giovanna (Alba Rorhwacher), ha ucciso la propria migliore amica e compagna di scuola per gelosia. La ragazza, ancora adolescente, grazie alla testimonianza degli psichiatri viene dichiarata insana di mente e rinchiusa nel manicomio criminale di Reggio Emilia, anziché in carcere.

Durante il periodo di isolamento quasi totale cui è sottoposta, la sola persona a occuparsi di lei è il padre, a conferma del loro particolare legame dal quale la madre, Delia (Francesca Neri), era sempre rimasta esclusa. Testimone dei terribili eventi è Sergio (Ezio Greggio), ispettore di polizia e amico intimo di Michele, da anni segretamente innamorato di Delia.

Nell’inverno del 1953, in una Bologna che sta ancora cercando di riprendersi dopo i massacri della guerra, Delia incrocia lo sguardo della figlia Giovanna, ormai guarita e come sempre accompagnata dal padre, nel buio di un piccolo cinema. La madre non avrà più incertezze: proveranno a ricominciare una nuova vita, questa volta insieme.


Anche ne Il papà di Giovanna, come nel già citato La seconda notte di nozze e Il cuore altrove, l’autore dimostra la predilezione per le storie d’epoca.
Capace di esplorare le pieghe più nascoste dell’anima dei personaggi, ma dotato al tempo stesso di occhi ben aperti sul mondo, riflettendo sul rapporto padre-figlia, spesso cruciale, strettissimo e drammaticamente complice.
La figura di una padre già messa in scena nel precedente lavoro: La cena per fargli conoscere, in cui Avati mise al centro del proprio interesse una riflessione su un ex uomo di successo, narciso e immaturo.

Malgrado la sua ambientazione d’epoca, la storia rimanda anche ai tanti casi di cronaca nera degli ultimi anni, che tanto appassionano il pubblico, come quello di Novi Ligure, di Garlasco, o di Perugia, ipotizzando probabili e concrete risoluzioni.
Oggi però gli assassini diventano eroi mediatici, soprattutto se c’entrano l’amore e le macchie spermatiche che fanno scoop; la popolarità li assolve, ai parenti chiedono l’autografo; fortunatamente il film è tutta un’altra storia.

Tutti gli attori sono diretti alla perfezione, gli ambienti angusti e tetri delle case sono stati ricostruiti egregiamente, senza alcuna concessione alle mode retrò, in una cornice cui la bella fotografia color seppia di Pasquale Raciti sa dar sempre il tono dell’epoca.

Un film robusto e ben interpretato, commovente, intelligente, con il dono tipico di chi sa presentare personaggi costruiti a tutto tondo. Una storia semplice ma dalla tematica intensa, dove l’elemento cronachistico, il folle delitto per gelosia, offre lo spunto per interrogarsi sul “difficile” mestiere paterno, sul tenero e spietato mondo dell’adolescenza.