Marigold Hotel è un titolo che lascia presagire poco: infatti, questo film ruota intorno a una residenza per la terza età a Jaipur, una caotica e assolata città in India, in cui il giovane proprietario sogna di trasformare l’hotel in un luogo migliore per un anziano (trasformazione ancora in corso quando i primi clienti si presentano alla residenza) che voglia trascorrere gli ultimi anni della propria vita in modo diverso.
Diverso è il termine più adatto, che compare metaforicamente addosso ai volti -oltre che sui vestiti, così diversi da quelli indiani, dei sette malcapitati che hanno la sventura di inaugurare l’attività dell’hotel-, che fin dalle prime immagini impone allo spettatore un sereno approccio a tutto ciò che è anticonvenzionale per un film (le frasi interrotte d’improvviso con cambi di scena netti) come per l’intreccio delle vicende personali dei protagonisti, mentre aleggia alla fine un tono lontanamente banale del classico happy ending americano.
Il messaggio della pellicola rimane costante e illuminante: non c’è fine se non è un lieto fine; certo, se ci fosse l’hotel ristrutturato o la città meno frenetica e sovrappopolata da indiani che corrono tutto il giorno in giro, sarebbe più facile raggiungere il proprio personale finale desiderato, ma il bello è anche in tutto il rumoroso caos di un paese che ha voglia di svilupparsi e dare l’opportunità a tutti, anche a chi abbia già avuto una chance, di provare a cambiare quello che non funziona.
In uscita il 30 marzo, il film è stato diretto da John Madden (che vide ricevere sette Oscar per Shakespeare in Love nel 1998), che pone di fronte a sé una struttura narrativa molto più ricca e ispirante, rispetto alla struttura filmica che non eccelle in alcun particolare tecnicismo riuscito; la fotografia invece riesce a cogliere i colori dell’India e cattura con forza lo sguardo dei presenti in sala.
Note di Produzione: Il cast di Marigold Hotel è di quelli da grande pellicola internazionale e il livello di recitazione è come te l’aspetti, purtroppo l’adattamento in lingua italiana penalizza la fruizione dell’opera, ma è risaputo (particolarmente fastidioso sentir doppiata Maggie Smith da Cristina Boraschi, doppiatrice ufficiale da anni di Julia Roberts: oltre a distogliere l’attenzione, è una voce così poco aderente al personaggio che avrebbe avuto bisogno della solita voce calda, meno squillante e non riconducibile alla Roberts di Paola Mannoni, che ha doppiato la fantastica attrice nella saga di Henry Potter.