Trenta film, per scelta tutti diversi tra loro. Perché meglio “non fare nulla che fare qualcosa di uguale”. Una vita senza ripetizioni, quella di Jacques Rivette. Il regista francese se ne è andato all’età di ottantasette anni.
Le sue pellicole sono state descritte come “investigazione impossibili”, raccontando personaggi sfuggenti, storie di fantasmi, cospirazioni in cui tutto è connesso o forse nulla lo è: la sostanza stessa del cinema.
Rivette amava ripetere:
Una troupe cinematografica è una forma di complotto, è completamente chiusa in sé stessa e nessuno è mai riuscito a filmare la realtà del complotto. C’è qualcosa di terribile nel lavoro del cinema.
Già dal primo film (preceduto da alcuni corti), Paris nous appartient, giocando nel titolo con una citazione di Charles Péguy: «Parigi non appartiene a nessuno» lungo le traiettorie dei suoi personaggi risucchiati in una inquietante trama criminale Rivette voleva spiazzare lo spettatore non conferendo lui alcuna certezza.
La capitale francese diventa una sorta di labirinto dove per orientarsi si devono interpretare tracce misteriose, linguaggi occulti come accade in Le Pont du Nord (1981) con Bulle Ogier e sua figlia Pascale che rimane il suo film con più consenso almeno in Francia, in cui si celano nuovi e impossibili complotti.
Strade deserte, parchi vuoti. La metropoli nei film di Rivette è un organismo vivente in continua trasformazione, a metà tra Balzac (molto amato dal regista) e gli scritti parigini sulla città di Walter Benjamin.
Nella banda dei «Giovani turchi» della Nouvelle Vague, Godard, Truffaut, Chabrol Jacques Rivette è rimasto il più indecifrabile. Era il suo «segreto» ma provare a intuirlo a ogni film è il piacere forse irripetibile di un cinema libero, visionario, senza pregiudizi divenuto raro.