Josie (Pat Shortt) lavora in una stazione di servizio, combatte quotidianamente con lo scherno di alcuni concittadini che scherzano sul suo disagio mentale impegnandosi con entusiasmo nel suo lavoro, lavoro al quale si aggrappa per costruirsi una quotidianità ed una routine che se per gli altri possono rappresentare solo noia e voglia di fuga, per lui sono l’unico modo per rimanere saldamente ancorato alla realtà che lo circonda.
Un bel giorno nella solitudine di Josie fa capolino un giovane e introverso adolescente che lo aiuterà con la pompa di benzina durante i lunghi week-end e l’orario extra, tra i due nascerà un’amicizia ed una complicità che aiuterà entrambi a combattere disagi diversi ma dalla comune radice.
Purtroppo Josie non possiede gli anticorpi necessari a combattere pregiudizio e maldicenza, pane quotidiano per molti dei suoi concittadini, e si ritrova esposto al male che pervade inesorabilmente l’essere umano, l’amicizia con il ragazzo non verrà ben vista dall’iperprotettiva madre di quest’ultimo che innescherà con una denuncia un malevolo meccanismo che sgretolerà il mondo ovattato e sicuro costruito con tanta fatica da Josie.
Il cinema del regista irlandese Leonard Abrahamson è bisbigliato e fa timidamente capolino tra i blockbuster da popcorn che invadono ogni fine settimana i nostri cinema, e cerca di raccontarci che tra l’estremismo autoriale dei puristi da festival e l’ostracismo dei fanatici dell’ultima ipertrofica meraviglia tecnologica c’è qualcos’altro.
Garage al contrario dell’estremismo realista del cugino tedesco Settimo Cielo, usa un’impronta visiva più calda, aiutata dagli incantevoli e taciturni paesaggi irlandesi e blandisce lo spettatore con un modo di vivere diverso propinato a piccole dosi, accompagnadolo in un mondo straniante, silenzioso e realistico, fatto di voglia di fuga, frustrazione e bigottismo che si scontrano con l’ottimismo e l’ingenuità di un adulto/bambino senza il necessario istinto di conservazione.
Garage è un modo di fare cinema alternativo, ma non troppo, un modo di narrare certamente non adatto alla cosiddetta fruibilità di massa, ma non per questo snob o volutante ostico, anzi è proprio il suo linguaggio semplice, il suo realismo e l’eplorazione di temi universali, che ne rivelano un lato aperto e alla ricerca dello spettatore sensibile e non del cinefilo tout court, in barba a chi vuole etichettare il cinema a tutti i costi, me compreso naturalmente.