A un certo punto mi sono reso conto di quello che significa “progresso”. Non sono ancora del tutto convinto che si tratti di un sinonimo di evoluzione. Tuttavia in un certo senso è come cadere dal letto mentre si sta giocando col proprio padre, o fratello, e, invece di fracassarsi completamente la testa, rompersi “semplicemente” un braccio.
Spesso, quando mi aggiro per le vie di Venezia, alla ricerca di tracce del festival, mi rendo conto che la gente ha l’ombrello aperto, ma non riesco a capire se lo fa perchè piove o per ripararsi dal solo. Sono così tante le cose che confondo, con questa confusione di auto e di novità. Anche i colori sono cambiati, non c’è più la discriminabilià di un tempo, dentro e fuori le persone.
E’ come se per qualche motivo le cose si siano complicate in modo esponenziale, abbastanza all’improvviso. Il mio unico timore è quello di non poter assistere, col fiato sospeso e i violini che stridono sadici nelle mie orecchie, a scene di vendetta, in terza persona, quasi bidimensionali, in cui il sangue del riscatto schizza orizzontalmente sulla neve, colorandola in modo caotico.
Scene come queste spadroneggiano ancora, in questi anni novanta. In questi stessi anni non è inconsueto incontrare, al Lido, personaggi come Robert Altman , che con America Oggi prende il Leone d’Oro nel 1993, Abel Ferrara, Rolf De Heer, Michael Radford (vi dice niente Il Postino, con Massimo Troisi?).
L’oriente spadroneggia e si impone sul Mondo, con La storia di Qiu Ju del cinese Zhang Yimou, Vive l’amour di Tsai Ming Liang e Cyclo di Anh Hung Tran.
Roger Avary ci racconta, nella lingua del produttore Quentin Tarantino, la storia di Killing Zoe, cruda quanto basta. Henry Selick ci regala Jack Skeleton con Nightmare Before Christmas, ideato e prodotto da Tim Burton conosciamo i fratelli Andy e Larry Wachowski, Guillermo del Toro e Bryan Singer.
E’ nel contesto poi della neo-nata sezione Finestra sulle immagini, che mi sono gustato l’anime Ghost in the Shell di Mamoru Oshii, un capolavoro di animazione a tutti gli effetti, mentre Al di là delle nuvole diretto da Antonioni e Wim Wenders ci riporta ad apprezzare il cinema di casa nostra.
Un giorno ho conosciuto Takeshi Kitano, di cui parleremo in queste pagine nei prossimi giorni. Il regista giapponese, vincitore del Leone d’Oro per Hana-bi – Fiori di fuoco, e lo stesso giorno sono stato catturato da Gianni Amelio, che mi ha stregato con Così Ridevano. Diversi modi di narrare, diverso tutto, con un unico risultato: tenermi incollato alla sedia.
Niente da dire, ormail il Duemila è alle porte. Forse me ne rallegro, forse me ne rammarico. Del resto nessuno è perfetto, a parte i bambini. Non ci chiediamo cose a cui difficilmente potremo dare risposta, ma facciamo una riflessione su una Mostra che è diventata un’entità, che non è riuscita a cancellare le tragedie della storia, ma ne porta orgogliosamente i segni.
Porta i segni dei suoi natali, si fregia di tutto ciò che nel frattempo è successo, senza rinnegare niente, ma soprattutto, guarda sempre avanti. Ognuno ha una storia da raccontare, e il festival di Venezia ne ha migliaia. Io mi sento parte di esso, forse lo sono sempre stato.
Sono gli anni in cui ho potuto guardare negli occhi, anche se loro non potevano ricambiare, Spike Jonze con Essere John Malkovich, David Fincher con Fight Club. Ho condiviso con Christopher Nolan le amnesie di Memento e il mitico Alejandro Amenábar con The Others, e Allen Hughes che ci racconta La vera storia di Jack lo squartatore nel 2001.
Il 2002 l’edizione viene organizzata sotto la direzione di Moritz De Hadeln. L’Oriente è ancora protagonista con Takeshi Kitano, che questa volta ci regala Dolls, una storia composta da materia poetica pura, e Chang-dong Lee, autore di Oasis, che segna l’esordio, in grande, del cinema coreano.
Anything Else, il nuovo film di Woody Allen, inaugura la 60° edizione della mostra. Ormai la mostra è regolarmente piena di star, decorata dalla presenza di divi come George Clooney e Catherine Zeta-Jones, protagonisti dell’ultimo film dei fratelli Coen, Prima ti sposo, poi ti rovino.
Sean Penn vince giustamente la Coppa Volpi, attore insieme a Naomi Watts per 21 grammi di Alejandro González Iñárritu, mentre il seno perfetto di Salma Hayek passeggia insieme a Johnny Depp, per presentare C’era una volta in Messico di Robert Rodriguez. Mi sono poi commosso di fronte alla bellissima, intensa esperienza, vissuta da Bill Murray con Lost in Translation.