Giovani disadattati, c’è poco da fare e da dire, sono sempre esistiti. Anni sessanta, anni cinquanta, anni settanta, e gli anni ottanta non li cito perchè sarebbe come sparare sulla croce rossa. Io che cos’ero? Non me lo ricordo più, adesso sono grande, faccio tante cose e vedo tanti pazienti, e soprattutto, senza l’ombra di ogni ragionevole dubbio sono adattatissimo.
La rimozione sembra funzionare, perchè se il pallore di Carrie ha mai colorato la mia pelle, ecco, io questa cosa non me la ricordo per niente. Il suo sguardo vitreo punta terra anche mentre fissa querulo i miei occhi.
Ma guardala, mi fa quasi rabbia. Non come la maggior parte dei pazienti, mi fa rabbia perchè è bellissima, perchè non è colpa sua se non riesce neanche a dirmi “buongiorno” senza arrossire. E’ questa totale assenza di responsabilità che odio, e all’improvviso ricordo il prezzo, carissimo, che pago per questo mio attuale adattamento, premio di consolazione per i superati trent’anni.
Torniamo a lei. Mi guarda e io ricambio il suo sguardo con un sorriso che tradisce un apprezzamento il cui odore a lei deve suonare disgustoso; mi sento improvvisamente una metafora delle stesse cose che odio, delle stesse persone da cui cerco di tenermi lontano.
Cerco di cogliere l’impurità che sicuramente, anche in minima parte, deve albergare nella sua carica ormonale di adolescente, cerco il sesso sulla sua pelle, sulle sue labbra, sui suoi vestiti. Non riesco a trovare altro che bisogno di aiuto.
C’è qualcosa di più. E’ una richiesta d’aiuto esaurita, ho il flash di una vecchia tanica secca e sporca nei pressi di un distributore di benzina abbandonato nel deserto. Mi sento a disagio: è davvero così tanto tempo che Carrie ha smesso di sperare in una sua ascesa alla normalità?
Ci ha mai realmente pensato? La risposta non può essere che affermativa. Circondata da compagne di scuola carine e iper-adattate, intelligente e attenta, non può essersi persa una fetta simile del contesto in cui vive.
Allora mi chiedo cosa la tiene in vita, mi chiedo quale sia il materiale che alimenta il fuoco che le brucia in fondo agli occhi; riconosco in quel fuoco la ricerca di una spiritualità sana, senza le macchie dell’idolatria che la madre le ha versato in testa e sgocciolato addosso, dopo averle conficcato un imbuto a in fondo alla dignità.
Lo sguardo di Satana, qualcuno mi ha detto. Io ci riconosco lo sguardo che si posa su un mucchietto di sogni infranti. Frammenti, briciole, piccoli vetri taglienti in attesa di essere calpestati da qualche incauto, e soprattutto scalzo, camminatore.
Abbassa lo sguardo in modo asintotico verso il pavimento, lo abbassa così tanto che rischia di fare “il giro” e andare a guardarsi dentro, e forse è proprio quello che fa; è proprio da lì che probabilmente schizza fuori il dolore, schizza fuori la paura, il senso di inadeguatezza e la percezione di un futuro grigio e incerto.
C’ è un solo modo di liberaersi da tutti questi legacci, di veder sparire queste mura: distruggerle, distruggerle, e distruggerle; risurle in frammenti così piccoli da non poter nuocere più in alcuna forma. Che aspetti, allora, Carrie? Comincia a distruggere tutto.