La casa dalle finestre che ridono è il primo approccio di Pupi Avati al genere thriller-horror, partito come scherzo, divenuto esperimento, rivelatosi in seguito un vero gioiello di suspense ed atmosfera. E’ il 1976, Avati raccoglie una piccola troupe di fedelissimi, una sceneggiatura a cui ha collaborato l’allora autore Maurizio Costanzo e tenta di sondare l’anima nera della sua Romagna da Amarcord fatta anche di isolati paesini, misteri, e lugubri casolari isolati.
Stefano (Lino Capolicchio), un giovane restauratore, è chiamato a riportare alla luce un affresco rinvenuto in una chiesa, affresco dall’aspetto inquietante che racconterà vecchie storie di rapporti incestuosi, pittori folli e sacrifici umani. La tranquilla e sonnolenta cittadina che ospita il giovane tirerà fuori un insospettabile lato perverso e malefico che in un escalation di indizi risveglierà anime dannate in cerca di sangue.
Avati senza averne forse l’intenzione rilegge un genere molto in voga in quegli anni cogliendone un lato gotico e autoriale che stupisce per efficacia. I brividi sono ben dosati e l’atmosfera rimane tra il rarefatto ed il disturbante. tutti i personaggi sono prototipi deviati delle classiche figure iconografiche del regista che vedremo poi popolare tutti i suoi lavori successivi che si attesteranno principalmente sulla commedia e sul melò.
Avati tornerà al thriller con buoni risultati, ma senza la forza degli esordi con Zeder, l’Arcano incantatore ed il recente e meno riuscito Il nascondiglio, comunque tre esempi dell’eclettismo del regista capace di giocare istintivamente con i generi.
Da rivalutare perchè: Per riscoprire un thriller a tinte horror che gioca più con l’inquietudine e le suggestioni che con gli effetti speciali.