Quando Matrix è uscito, correva l’anno 1999. Ancora non era arrivato il 2000, e i fratelli Wachowsky rivoluzionavano il cinema. Ma quale cinema? Il cinema di fantascienza? Forse, ma detto così suona riduttivo.
Il termine “matrix” viene dal latino, e significa letteralmente matrice, ma anche nutrice, madre; pensiamo al significato di questi termini. La matrice, ci rimanda direttamente a concetti matematico/informatici. Chi, come me, ha affrontato un corso di Algebra Lineare, sa esattamente di cosa parlo.
La struttura matriciale ci rimanda alla formalizzazione del mondo artificiale creato dalle macchine. Un mondo che ci è familiare, e dal quale non vogliamo staccarci, perchè è quello in cui nasciamo, e in cui siamo predestinati, almeno apparentemente, a morire.
Per questo matrix è madre e nutrice: crea tutto ciò che noi percepiamo, e se è la percezione a guidare i pensieri, essa costruiscono i nostri pensieri; e se il “cogito ergo sum” di Cartesio per noi è un assioma, ciò che viene creato è quindi il nostro stesso essere.
Del resto Mr. Smith ci spiega la filosofia di base della matrice, quella semplice, servitaci su un piatto d’argento sotto forma di semplice ragionamento deduttivo: non c’è alcun motivo, in sostanza, per preoccuparsi di distinguere tra il mondo vero e quello artificiale creato dalle macchine.
E’ la percezione che decide in che realtà ci troviamo. Da dove essa provenga, può essere una questione assolutamente inutile, se non cerchiamo le motivazioni profonde o la Vera Teoria del Tutto.
E’ difficile trovare una spinta per alzare lo sguardo e vedere la realtà per com’è. Si tratta di un processo tutt’altro che indolore, e dall’esito non sempre certo. Neo, nelle vesti di pseudo messia, non ha tutti questi problemi, ma potrebbe non essere così semplice per tutti.
Alzare lo sguardo, dicevo; Platone, ne La Repubblica, parlando del Mito della Caverna, ci spiega come in realtà noi non vediamo la vera essenza delle cose, ma solo una loro proiezione, un ombra che vediamo sul muro di una caverna.
Le “cose vere” ci abbagliano, richiedono uno sforzo in più. Un tema che riroviamo, ad esempio, in Vanilla Sky, in cui il protagonista lentamente si rende conto di far parte di un mondo creato dalla manipolazione artificiale delle proprie percezioni.
Platone non è stato l’unico – ebbene si – precursore di Matrix, inteso più come fenomeno che come film: Il Gran Khan domandava a Marco Polo se fosse l’imperatore cinese a sognare di essere una farfalla o l’insetto a sognare di essere un’imperatore cinese.
La filosofia post-cartesiana si ponevano il dubbio se la realtà percepita fosse la vera realtà. La risposta che la filosofia ha dato un secolo dopo a questa domanda è che non ci sono elementi sufficienti per darne una esaustiva.
Per quello che riguarda gli effetti speciali, il film ha contribuito in modo decisivo alla diffusione e all’evoluzione dell’uso dell’effetto speciale conosciuto come bullet time, che consente di vedere ogni momento della scena in slow-motion mentre l’inquadratura sembra girare attorno alla scena alla velocità normale.
Il bullet time è in realtà lo sviluppo di una vecchia tecnica fotografica conosciuta come fotografia time-slice (fetta di tempo), nella quale un grande numero di camere sono disposte attorno ad un oggetto e vengono fatte scattare simultaneamente.
La sequenza degli scatti è vista come un filmato e lo spettatore quindi ha l’impressione che le “fette” bidimensonali vadano a formare una scena tridimensionale. L’effetto è più o meno quello che si ottiene guardando fisso un oggetto mentre gli si gira intorno.
L’effetto è stato sviluppato ulteriormente dai fratelli Wachowsky e dal supervisore agli effetti speciali John Gaeta per creare il bullet time, che supporta movimenti temporali, in modo tale da non congelare totalmente la scena ma facendola vedere al rallentatore o con velocità variabile.